Critica

Giuseppe Masetti

Pensare la pittura, sperimentare con l’incisione – le ultime opere di Liliana Santandrea

Santandrea proviene dal cuore colto della Romagna, quella provincia storica e ricca, dai tanti palazzi affrescati, sotto ai quali dormirono Napoleone e numerosi cardinali, una piccola nobiltà diffusa e animosi patrioti.
L’azzurrino di quelle volte neoclassiche riveste da sempre le eleganti ceramiche faentine; le belle arti qui sono di casa e gli Istituti d’arte sono ancora molto frequentati, per tenere in vita le antiche botteghe e far pulsare il grande Museo Internazionale della ceramica.
Liliana è nata lì a Faenza respirando quell’aria, per trasferirsi poi e lavorare nella vicina Bagnacavallo, il bel borgo che diede i natali a Leo Longanesi e che da anni alimenta un vivace Gabinetto delle Stampe Antiche e Moderne, all’interno della sua cittadella culturale, nell’ex convento delle madri Cappuccine.
Nonostante il debito per la pittura sia avvertito anche qui, Liliana dopo il Liceo e l’abilitazione all’insegnamento, ha voluto guardare ben oltre, frequentare le buone scuole di incisione e seguire i migliori maestri della sperimentazione grafica contemporanea.
Così ha trascorso alcuni degli Anni ’80 a Venezia, studiando il lavoro di Riccardo Licata alla Scuola Internazionale di Grafica, per guardare poi all’opera di Renato Bruscaglia fermandosi alla Scuola di Grafica d’Arte dell’Accademia di Urbino; in tempi successivi è stata attenta ai consigli offerti da Tonino Guerra ed è poi tornata a collaborare sul torchio con il suo insegnante di Liceo Giulio Ruffini, fino ad ospitare negli ultimi anni a Bagnacavallo gli apprezzati stage del noto bulinista austriaco Jürgen Czaschka.
Praticamente una vita intera, trascorsa tra studio, ricerca e formazione; per alcuni decenni infatti Liliana è stata Direttore didattico e docente alla Scuola comunale d’Arte “Bartolomeo Ramenghi” nella sua Bagnacavallo, contesa fra centinaia di alunni e discipline diverse.
Malgrado questo impegno è sempre riuscita a ritagliarsi un proprio ambito creativo, a tenere numerose mostre in Italia e all’estero, quasi sempre centrate sul rapporto, per lei fondamentale, tra l’ambiente reale delle nostre periferie, quelle forme simboliche dettate dalle architetture industriali e i contesti umani, incapaci ad orientarsi e a darsi coscienza.
Spazi riconoscibili, ferrigni, dove l’uomo è stato, ma dove non appare più necessario.
Ha così prestato il suo linguaggio artistico per interpretare il dialogo inconsapevole dell’uomo con un nuovo panorama industriale, un’accelerazione in continua tensione fra memoria e spaesamento, fra mito e degrado. Le sue incisioni sono il risultato di una ricerca continua, di un’attenzione speciale che parte dalle immagini – fotografiche e mentali – catturate sul campo, poi meditate ed elaborate, per evolvere infine in paesaggi simbolici e dettagliati. A questi si aggiunge spesso un tocco personale ed ironico, inafferrabile, come il suo parlare discreto, sfumato sempre in un evanescente non-detto, che devi inseguire e immaginare, per comprendere il senso del suo progetto.
Al pudore nel definire con le parole il tema indagato Liliana associa per contro, fin da subito, una chiara inquadratura concettuale dell’opera da realizzare. Paesaggi plastici, equilibrati, concepiti prima in precisi bozzetti preparatori, sottendono un’idea ben chiara di quanto la lastra dovrà contenere; solo l’alchimia degli ultimi interventi tecnici produce risultati inconsueti, come il vortice di vapori e il terreno puntinato che incorniciano la grande acquaforte e maniera a zucchero, intitolata Crogioli nella polvere, ove la sfida dell’autrice si spinge a descrivere l’intenso fumo scuro che incombe sui distretti industriali delle raffinerie appena fuori dalla città del silenzio.
Spesso la sua impronta risiede in quella traccia vermiglia che irrompe sulla tavola dei grigi, e come una colata di lava pulsante ci dice che il gigante è vivo, anche se quei panorami alienati non contengono più la presenza umana. Le grandi ciminiere bicovesse hanno un respiro ininterrotto, perenne, che un ignoto Prometeo ha acceso e nessuno sembra più poter controllare.
Ma anche le sue distopiche figure femminili, spesso di spalle per non condizionare lo sguardo con i tratti di un volto, spostano l’attenzione sullo sfondo delle acqueforti e sui piccoli segni simbolici che galleggiano intorno alla fine trama dei tessuti e dei capelli. Un dettaglio sapiente e magnetico, un virtuosismo discreto che vuole affrancare le sue creature dal conformismo della ritrattistica, spesso ostaggio di maniera nella produzione calcografica.
In tutta l’opera incisa di Liliana Santandrea – che oggi raggiunge una piena maturità/padronanza di temi e linguaggi – si coglie spesso l’emergere di un particolare evocativo finemente ricercato, che si stacca dal fondo indefinito, magmatico, come la foglia di quercia che sfiora il braccio di Beatrice vestita di donna, ancora una raffinata acquaforte e acquatinta con maniera a zucchero, a ricordarci che pure oggi, uomini e donne del nostro tempo, devono uscire da nuove foreste.

Angelamaria Golfarelli

Siamo isole imperfette e meravigliose dove ogni differenza è un valore che accresce e dà un senso al perfetto e cosmico arcipelago di cui siamo parte.
Anche per questo 8 marzo 2025, UDI Forlì propone una delle edizioni della mostra che vuole, come ogni anno, dare ad un’artista donna la possibilità di esprimere, attraverso le sue opere e il suo personale talento, la profonda riflessione che ella rivolge al mondo femminile. Questa diciannovesima edizione è dedicata alle opere di Liliana Santandrea e ha come leitmotiv il lavoro e l’ambiente, temi da sempre cari ad UDI. Imperfect Islands è infatti una mostra che esporrà opere pittoriche in tecnica mista e incisioni su carta e su gesso che, attraverso lo sguardo sapientemente concreto dell’artista, porteranno ad indagare l’oggettività del lavoro inteso come reale affermazione di una concreta e stabile emancipazione dell’individuo in genere, e della donna in particolare. I paesaggi industriali delle sue opere, infatti, narrano, attraverso le atmosfere estranianti di periferici insediamenti, architetture spettrali di fabbriche che delimitano i confini di un territorio dove i fumi abbondanti che escono dalle ciminiere si fondono in un unico e sempre uguale orizzonte che, lontano da ogni monotonia, sottolinea invece quanto il lavoro sia necessario ad un autentico riconoscimento dell’individuo e della sua dignità. Liliana Santandrea sfata così in maniera inequivocabile il diffuso pregiudizio che l’arte femminile sia ispirata esclusivamente dall’emotività e da una natura fragile che esprime senza alcuna forza i paradigmi della sua essenza. Perché nelle sue opere, la cui preziosa tecnica non sovrasta mai l’idea, la presenza assoluta di una poetica ermetica non si sottrae al processo colto che il suo grande talento elabora. Quello di calarsi nella realtà e nella vita con profonda consapevolezza. Senza perdere mai di vista il messaggio che l’artista e la donna vogliono dare: che la vera emancipazione e la libertà passano inevitabilmente dal lavoro. Perché c’è un tempo per i sogni e uno anche per le illusioni, ma non è questo. Oggi, infatti, occorre trovare la propria dimensione nel mondo e in questa difficile quotidianità, rispolverando valori creduti superati, ma anche dirigendosi verso quella inderogabile transizione ecologica che vede le donne sempre più spesso assumere ruoli centrali nei processi rivolti ad una sostenibilità capace di traghettare il presente in un futuro liberato dai tanti “inquinamenti” che ci affliggono. A queste riflessioni ci portano le straordinarie opere di Liliana Santandrea, che inducono ad affrontare anche l’improrogabile urgenza della crisi ambientale e climatica. Perché le ciminiere, i crogioli e le grandi cisterne che l’artista ritrae con una maestria rara sono sì parte di un sistema industriale ed industrioso che offre lavoro a tante persone, ma sono anche, attraverso le grosse emissioni in atmosfera di gas inquinanti, per alcuni aspetti, mezzi di distruzione ambientale. È quindi necessario trovare una giusta mediazione fra la richiesta di lavoro e il bisogno di tutelare l’ambiente. Le opere di Santandrea queste tematiche le affrontano con l’uso sublime dell’arte che, mai come oggi, può essere strumento di sensibilizzazione e consapevolezza.
Ma non si fermano ad un’unica declinazione le colte ricerche di Liliana, che incide profondamente anche su altri temi, affrontati però abbandonando momentaneamente la pittura per utilizzare la sua antica passione per la tecnica dell’incisione. E in questa mostra nelle incisioni esposte emerge prepotentemente la sua relazione con un femminile determinato e deciso che si immerge in una evanescente delicatezza. In esse, le forme sinuose delle donne ritratte di spalle, i profili appena accennati e la sovrapposizione dei volti indagano un universo femminile fatto di percorsi complessi dove a volte anche fatica e rinuncia esprimono con decisione l’importanza del ruolo della donna nella società. Ed è anche grazie a questa preziosa e minuziosa tecnica che il segno tracciato sulla lastra si incide sul foglio lasciando nell’unicità di ogni copia il simbolico riprodursi di un’istanza prodigiosa quale solo una genesi misteriosa sa attingere. Liliana Santandrea con la sua arte ci esercita così a raggiungere quella dimensione alta in cui l’io si abbandona al noi e il pensiero si apre verso la straordinaria ipotesi dicotomica di una verità plurale capace di ascoltare più voci.
Un talento assoluto che dall’arte estrae l’essenza vitale di una donna abituata a prendersi cura di sé anche nelle piccole cose. Un sofisticato pensiero femminile che si rivolge alle altre donne con il generoso bisogno di condividere la sua concretezza. Perché Liliana da questo non sa prescindere e, anche quando attraversa il sogno, il suo sguardo non perde mai il saldo contatto con il reale.
C’è tanto da far riflettere in questa mostra e tanto ancora da assimilare da queste opere così autentiche ed evocative che solo lo sguardo più attento saprà cogliere leggendo, attraverso una delicata malinconia, quella profetica visione che Dostoevskij e Montale ci suggerivano del domani, con i loro preziosi scritti.


Carlo Polgrossi

Fra oriente e occidente

Non è facile enucleare la complessa personalità artistica di Liliana Santandrea, pittrice, calcografa, ceramista ed insegnante apprezzata e stimata della Scuola di Arte Disegno «Bartolomeo Ramenghi» di Bagnacavallo. Sono infrequenti gli artisti in grado di esprimersi ad alto livello nell’incisione e contemporaneamente in pittura: direi rari quelli che a queste discipline sanno aggiungere anche la ceramica, attività quanto mai variegata e complessa nelle sue numerose tecniche esecutive.
Un’artista eclettica dunque, profonda conoscitrice dei media espressivi che sa utilizzare con facilità e padronanza. La versatilità del linguaggio sa tuttavia ben amalgamarsi ed unificarsi nell’espressione formale, perfettamente lucida e coesa.

Allieva di Ruffini, un artista che ha sempre ritenuto inscindibile la qualità formale dell’opera dal suo contenuto, la Santandrea ha operato e continua a muoversi nell’ambito magmatico dell’espressionismo, oscillando fra esiti figurativi ed informali. La matrice appare più francese che tedesca nel senso che la sua opera si estende su di un versante estetico formalmente più gradevole ed elaborato, concettualmente distante dal mondo disperato ed ansiogeno del filone nordico. Esiste nel suo lavoro una sottile ma persistente tendenza a rallentare il gesto espressivo, ad ingentilirlo ed a solidificarlo in un tempo ed in uno spazio di chiaro gusto classicheggiante.

La costante più evidente tuttavia di tutto il suo operare, è rappresentata dal continuo spirito di ricerca: un’indagine non circoscritta solo all’analisi delle potenzialità dei mezzi espressivi, bensì articolata in ambiti filosofici e sociologici di bruciante attualità. Una rappresentazione a tutto campo che abbraccia e coinvolge il concetto stesso dell’umana esistenza. Una simbologia dell’uomo odierno, della frammentarietà e precarietà del suo quotidiano, del caos inteso come perdita di coesione, incapacità di riconoscersi e quindi di amarsi. Da tutto ciò non può che nascere la paura, figlia della solitudine dell’uomo moderno il quale sa raggrupparsi ma non affratellarsi, e disprezza le diversità perché non sa riconoscerne il valore. Uomini come cariatidi impastate in rassegnati esodi senza ritorno.

Non dice l’artista esplicitamente quali siano le cause, di chi le colpe né quali i rimedi a tutto questo. Con gesto di efferata ironia, lustra, incera, inquadra con grazia l’esile frammento come effimera icona di un mondo ormai senza futuro ove già, fra polverosi scenari di recite ormai dimenticate, si intravedono le lande deserte dell’entropia che si compie. Una visione apparentemente senza speranza. Solo se l’uomo saprà vincere la paura, se lascerà gli inutili orpelli della superbia e della presunzione, solo allora forse, il futuro si rimetterà in moto ed allora, su più solide basi, si potrà riaccendere la speranza di costruire un nuovo umanesimo.

L’artista, attenta non solo ai fatti dell’arte ma anche a quelli più vasti della vita, titolando l’ultima serie di opere «Fra Oriente e Occidente» pone probabilmente l’indice su quello che sarà il problema centrale dell’umanità nel secolo venturo. Afferma con forza che le differenze culturali fra i popoli sono un inestimabile valore, una ricchezza che fino ad oggi non abbiamo saputo usare, racchiusi ed illusoriamente protetti nell’«hortus conclusus» di un provincialismo planetario duro a morire. Dei miti aulici, orgoglio e dannazione delle genti, resta ben poco. La bellezza, ultima sirena, è scomparsa dall’arte e altrove, nel corso di questo secolo ed ora giace, nuda e rinsecchita, nella trasparenza di un vaso di formalina.

Sia la ragione allora, a darci il coraggio di accomunare ciò che resta di noi, fondiamo i segni visibili delle nostre (presunte) grandezze e dal «melting pot» uscirà forse qualcosa di nuovo che, tutti comprendendo, nessuno potrà escludere.

Liliana Santandrea ripropone dunque tenacemente il tema del pianeta all’uomo e dell’uomo al suo simile, in nome di un rinnovato e più onesto patto. E lo fa con tutta la bravura e la passione che da sempre la contraddistinguono. Sceglie, e non poteva essere diversamente, la via più difficile e più infida, quella del cuore e della conoscenza, quella in cui tecnica e ricerca acquistano nuovo senso e dignità in nome di una bellezza antica mai pienamente goduta.


Franchino Falsetti

La montagna e l’uomo

“Gli artisti non devono esprimere il senso di un’epoca; piuttosto, devono dare all’epoca un senso”. (Conrad Fiedler).
Questo è il senso profondo della produzione artistica di Liliana Santandrea. La sua versatilità, la sua formazione eclettica, la sua illimitata ricerca dei segni e dei simboli delle culture e della sensibilità estetica, concorrono a delineare e comunicare, con efficacia, i contenuti e le finalità delle sue opere.
L’approccio alla lettura delle opere non è semplice né va inteso come contatto immediato. Lo spessore interdisciplinare che traspare dalla sua indagine è complesso, ricco di stimolazioni culturali, quasi un tentativo di ri-conquistare, attraverso il “nuovo”, l’arte del passato, forse, meglio, l’arte di un ri-pensare i luoghi della memoria e del risveglio del ri-vivere i rapporti dell’uomo e della natura, della montagna e delle pietre, in una nuova coscienza creativa per caratterizzare una riflessione storica, che possa evidenziare lo stato di smarrimento e di disordine del mondo attuale e del confuso osservatore. La pittura di Liliana Santandrea provoca letture multiple della realtà: c’è un diffuso senso della precarietà e del declino, non solo di cultura o di civiltà, ma del linguaggio, al rischio di rendere inautentico il suono, il segno visivo dell’esperienza artistica.
Le “cose mute” descritte da Hugo von Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos, appartengono alla stessa famiglia del “cose declinanti” dell’artista Liliana Santandrea.
Nella serie “La montagna e l’uomo”, non sono le pietre o gli alberi a diventare uomini, come è nella tradizione della poesia e della narrativa, ma sono gli uomini che diventano cose, essenze senza nome ed unica forma di una reale presenza di una umanità, in piena dissoluzione.
È una certa umanità che scompare: l’umanità della coscienza storica, quella della “intenzionalità rituale”, che non consente alcuna scissione tra la nostra coscienza e il mondo; quella che ci pone il “tempo esaurito” della tradizione mitica: “La tradizione-dice – Ricoeur- nella misura in cui discende essa stessa il pendio del simbolo verso la mitologia dogmatica si viene a situare sul tragitto di questo tempo esaurito”.
L’artista Santandrea è consapevole di questa caduta delle ideologie, delle idee senza simbologie visibili e senza alcuna forza rivitalizzante. È la constatazione di un declino culturale di un modo di pensare, di idealizzare, di concepire la realtà senza la sua magia e senza il suo risvolto misterioso. È sentirsi defraudato di una antica sensibilità del vivere che faceva sognare e ricamava i vestiti più belli della nostra fantasia.
Ciò che si coglie, infatti, nel mondo contemporaneo, è la mancanza dell’immaginario e del numen del luogo: una sorta di “insieme semantico” della religiosità dell’atto creativo e della sua rappresentazione.
Non è “la grotta fantastica” che si vuole riconquistare, ma un particolare motivo di osservazione: predisporre la conquista per una nuova conoscenza, fatta di letture senza idolatrie e per lettori inventori. L’artista deve liberare la mente dal “gergo”, cioè dagli orpelli accademici, dalla retorica delle mode e dall’eccesso di venerazione delle cose del tempo.
Emerson diceva che “la casa dello scrittore è la gente, non l’università”, volendo dimostrare che non è la fredda e programmata erudizione che fa uno scrittore, come non è la sola abilità tecnica e professionale che fa un artista.
Liliana Santandrea è consapevole di tutto questo e nella sua produzione artistica rivela, opportunatamente, capacità e comportamenti interpretativi e propositivi. La sua è una produzione di tipo progettuale: il progetto “uomo” nel tempo storico e nello spazio geografico senza confini.
La chiave di lettura di queste universalità sta nel recupero dell’ironia. L’ironia che aiuta la comprensione dell’opera e ne toglie ogni ambiguità, anzi ci permette di entrare, senza fantasticherie, nella letteratura dell’immaginazione, nei campi della contraddittorietà delle culture pittoriche, nelle stravaganze del nuovo dominio del “political correct”, senza impedirci, per sopravvivere, di poter esorcizzare i fantasmi della de-contestualizzazione.
L’ironia è la metafora della libertà; è la luce che ci consente di vivere senza ombre esistenziali prevaricatrici e senza menzogne oscurantiste (“Ciò che è nascosto, non ci interessa”. Wittgenstein).
I silenzi, le forti campiture di antica evocazione cartografica, le figure di sfondo ed in atteggiamento di attesa alla ricerca di nuove idee universali, sono i segni distintivi ed emblematici della attività e ricerca artistica di Liliana Santandrea.
C’è ancora una dimensione culturale che mi preme sottolineare: il piacere del viaggio, il viaggio dei ritorni, i Nostoi.
Il ritorno esistenziale, la resistenza ad una visione della vita, ad un richiamo all’infanzia rivissuta nel ricordo e anche nel presente.
Il ritorno ulissiaco è il tema psicologico, per antonomasia, che condiziona le vicende narrate, le scelte fondamentali, il contatto con la vita e le cose. Nelle opere dell’artista, traspare, una velata nota di nostalgia per il “ritorno”, contaminato dalle incongruenze della precarietà del vivere e dalle incertezze dei contenuti effimeri ed evanescenti dell’oggi.
L’artista desidera, al di là di tutto, attraverso le sue opere, lanciare un messaggio: riscoprire il “realismo” delle storie, le “storie” senza tempo, le “storie” dell’anima.
Questo qualifica il suo progetto “uomo e ambiente” e fa ri-pensare la propria storia individuale, quale nuovo “mito” da ri-vivere per le generazioni future.


Enzo Dall’Ara

Dimensione verticale

Da un’orizzontalità che piega il pensiero ai ritmi del tempo e della storia scaturisce il prestigio di un momento in cui lo spirito si eleva alla verticalità dell’ascesa intellettiva. “Dimensione verticale”, titolo accordato al più recente corpus di opere di Liliana Santandrea, immette nel nucleo pittorico di dipinti che evolvono, con sublime maestria tecnica e compositiva, dalla fisicità magmatica della terra agli insondabili orizzonti cosmici. Il pensiero astratto dell’elevazione interiore si concretizza nell’anima di una materia intensamente cromatica, densa e duttile, capace di addurre, nel vibrare percettivo di figurazione e astrazione, il suggerimento di un faro-torre o di strati litici che, sulla linea liminare dell’orizzonte, abdicano ad arcane profondità atmosferiche.
Quando la verticalità è vigorosamente risolta nel bianco e nel nero, essa può essere dichiarata nell’oggettività di un’imponente ciminiera-altoforno, con passaggi che dal crogiuolo del fuoco endogeno attraversano la fascia della combustione e corrosione per giungere alla struttura morfologica di ondulate ipotesi paesaggistiche. Il processo alchemico si conchiude e si schiude nell’incendio interiore di un divenire ciclico di vita-morte-rinascita che è costante palingenesi di energia cosmica. La pittura di Liliana Santandrea che, nonostante la sottesa matrice espressionista, unita a echi munchiani, non ammette confronti o assonanze, induce un’identificazione in grado di sintetizzare sogno e idealità con ragione e concretezza.
Evocando l’anima della terra e del cosmo, e quindi dell’uomo, l’artista afferma, attraverso parallele emergenze di archeologia industriale, un’individualità espressiva che si avvale di un assoluto “titanismo” del pensiero creante. Le opere, che nel fluire orizzontale seguono una dinamica filmica con differenti punti d’osservazione, ascendono, invero, alla misura verticale in una risoluzione cromatica e luministica che allude a un universo in evoluzione, permeato da un costante tormento di rinascita. La verità di un mondo in continua trasformazione vale anche per l’essere umano, per la sua psiche e per il suo corpo-anfora. Liliana Santandrea indaga, infatti, sulla realtà dell’uomo e del suo mistero esistenziale mediante meditate incisioni che, con deformazioni somatiche, sollecitano il pensiero alla ricerca della dimensione metamorfica. Così, ancora una volta, il “panta rei” eracliteo emerge sulle soglie filosofiche e culturali del terzo millennio.


Aldo Savini

Le immagini pur realistiche non conservano tracce di quel sereno e solare naturalismo della pittura di paesaggio romagnola, ma, interiorizzate, introducono ad una visione in cui si addensano memorie e riflessioni private. La scelta di privilegiare l’ambiente e in particolare i complessi industriali funzionanti comporta una concezione dell’arte per cui il fine estetico non può essere disgiunto da un consapevole impegno etico e civile. La Santandrea vuole portare in primo piano quello che in genere non si presenta nell’immediatezza ma che sta alla base della nostra quotidianità, convinta che “mentre una volta l’artista disegnava la natura morta perché la natura e la frutta erano la vita, attualmente la natura morta che chiamiamo viva è data da queste fabbriche da cui l’uomo dipende. Sono uguali sia a Ravenna che in Russia e in altre parti del mondo, al loro interno si trasforma la materia, si produce energia, elementi indispensabili all’uomo, insieme, tuttavia, anche alle scorie”. I suoi paesaggi, pertanto, si collocano al limite della figurazione tanto da assumere connotazioni quasi astratte, per legare la realtà al senso di indefinito e allo stesso tempo di infinito. Non vuole che si veda un’immagine chiusa e circoscritta ma che le diverse linee di forza e i quattro colori che usa – nero, bianco, rosso e terra di siena naturale con qualche inserimento di blu – diano sensazioni che oltrepassino il reale, sconfinando nel vuoto e nel dolore, per aprire, infine, alla rigenerazione.


Fabio Alessandro Mirri

La Santandrea ha una visione filosofica, romantica, mediterranea. Analizzando la serie Habitat, si avvertirà la presenza dell’uomo. I paesaggi metafisici possiedono una squisita emozionalità. Le sue “pennellate /spatolate” si dipanano in un’aritmia orizzontale e vanno verso l’infinito. Oltre l’infinito. La sensuale carnalità del rosso viene arricchita da un’arcaica sacralità senza spazio e senza tempo. L’atmosfera è mistica. I paesaggi parlano e dialogano con la nostra anima e ci regalano profonde emozioni. Con l’albero, tecnica mista, 2008. l’humus, l’essenza, il cuore stesso dell’opera è allo stesso tempo carnale e spirituale. Vorrei porre l’accento su un concetto importante: il tempo. Nella splendida serie delle “ ciminiere” lo sfondo è composto da una scenografia di palazzi popolari e/o edifici industriali, i fumi delle ciminiere si innalzano in un cielo plumbeo, grigio. Sembra di essere immersi nell’atmosfera dell’Inghilterra dell’ottocento. La sua inconfondibile impronta è comunque segnata da un’intensa poesia. Nell’ opera il gabbiano, “tecnica mista 2012”, questo volatile, simbolo della libertà estrema e universale sembra astrarsi e guardare fuori, altrove, per donarci una vita migliore o almeno più dignitosa