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LA MONTAGNA E L’UOMO

Olio su tela

FRA ORIENTE E OCCIDENTE di carlo polgrossi, bagnacavallo – novembre 1998

Non è facile enucleare la complessa personalità artistica di Liliana Santandrea, pittrice, calcografa, ceramista ed insegnante apprezzata e stimata della Scuola di Arte Disegno «Bartolomeo Ramenghi» di Bagnacavallo. Sono infrequenti gli artisti in grado di esprimersi ad alto livello nell’incisione e contemporaneamente in pittura: direi rari quelli che a queste discipline sanno aggiungere anche la ceramica, attività quanto mai variegata e complessa nelle sue numerose tecniche esecutive.

Un’artista eclettica dunque, profonda conoscitrice dei media espressivi che sa utilizzare con facilità e padronanza. La versatilità del linguaggio sa tuttavia ben amalgamarsi ed unificarsi nell’espressione formale, perfettamente lucida e coesa.
Allieva di Ruffini, un artista che ha sempre ritenuto inscindibile la qualità formale dell’opera dal suo contenuto, la Santandrea ha operato e continua a muoversi nell’ambito magmatico dell’espressionismo, oscillando fra esiti figurativi ed informali. La matrice appare più francese che tedesca nel senso che la sua opera si estende su di un versante estetico formalmente più gradevole ed elaborato, concettualmente distante dal mondo disperato ed ansiogeno del filone nordico. Esiste nel suo lavoro una sottile ma persistente tendenza a rallentare il gesto espressivo, ad ingentilirlo ed a solidificarlo in un tempo ed in uno spazio di chiaro gusto classicheggiante.
La costante più evidente tuttavia di tutto il suo operare, è rappresentata dal continuo spirito di ricerca: un’indagine non circoscritta solo all’analisi delle potenzialità dei mezzi espressivi, bensì articolata in ambiti filosofici e sociologici di bruciante attualità. Una rappresentazione a tutto campo che abbraccia e coinvolge il concetto stesso dell’umana esistenza. Una simbologia dell’uomo odierno, della frammentarietà e precarietà del suo quotidiano, del caos inteso come perdita di coesione, incapacità di riconoscersi e quindi di amarsi. Da tutto ciò non può che nascere la paura, figlia della solitudine dell’uomo moderno il quale sa raggrupparsi ma non affratellarsi, e disprezza le diversità perché non sa riconoscerne il valore. Uomini come cariatidi impastate in rassegnati esodi senza ritorno.
Non dice l’artista esplicitamente quali siano le cause, di chi le colpe né quali i rimedi a tutto questo. Con gesto di efferata ironia, lustra, incera, inquadra con grazia l’esile frammento come effimera icona di un mondo ormai senza futuro ove già, fra polverosi scenari di recite ormai dimenticate, si intravedono le lande deserte dell’entropia che si compie. Una visione apparentemente senza speranza. Solo se l’uomo saprà vincere la paura, se lascerà gli inutili orpelli della superbia e della presunzione, solo allora forse, il futuro si rimetterà in moto ed allora, su più solide basi, si potrà riaccendere la speranza di costruire un nuovo umanesimo.
L’artista, attenta non solo ai fatti dell’arte ma anche a quelli più vasti della vita, titolando l’ultima serie di opere «Fra Oriente e Occidente» pone probabilmente l’indice su quello che sarà il problema centrale dell’umanità nel secolo venturo. Afferma con forza che le differenze culturali fra i popoli sono un inestimabile valore, una ricchezza che fino ad oggi non abbiamo saputo usare, racchiusi ed illusoriamente protetti nell’«hortus conclusus» di un provincialismo planetario duro a morire. Dei miti aulici, orgoglio e dannazione delle genti, resta ben poco. La bellezza, ultima sirena, è scomparsa dall’arte e altrove, nel corso di questo secolo ed ora giace, nuda e rinsecchita, nella trasparenza di un vaso di formalina.
Sia la ragione allora, a darci il coraggio di accomunare ciò che resta di noi, fondiamo i segni visibili delle nostre (presunte) grandezze e dal «melting pot» uscirà forse qualcosa di nuovo che, tutti comprendendo, nessuno potrà escludere.
Liliana Santandrea ripropone dunque tenacemente il tema del pianeta all’uomo e dell’uomo al suo simile, in nome di un rinnovato e più onesto patto. E lo fa con tutta la bravura e la passione che da sempre la contraddistinguono. Sceglie, e non poteva essere diversamente, la via più difficile e più infida, quella del cuore e della conoscenza, quella in cui tecnica e ricerca acquistano nuovo senso e dignità in nome di una bellezza antica mai pienamente goduta.

LA MONTAGNA E L’UOMO

Opere su carta

LA MONTAGNA E L’UOMO di franchino falsetti, 2006

“Gli artisti non devono esprimere il senso di un’epoca; piuttosto, devono dare all’epoca un senso”. (Conrad Fiedler).
Questo è il senso profondo della produzione artistica di Liliana Santandrea. La sua versatilità, la sua formazione eclettica, la sua illimitata ricerca dei segni e dei simboli delle culture e della sensibilità estetica, concorrono a delineare e comunicare, con efficacia, i contenuti e le finalità delle sue opere.
L’approccio alla lettura delle opere non è semplice né va inteso come contatto immediato. Lo spessore interdisciplinare che traspare dalla sua indagine è complesso, ricco di stimolazioni culturali, quasi un tentativo di ri-conquistare, attraverso il “nuovo”, l’arte del passato, forse, meglio, l’arte di un ri-pensare i luoghi della memoria e del risveglio del ri-vivere i rapporti dell’uomo e della natura, della montagna e delle pietre, in una nuova coscienza creativa per caratterizzare una riflessione storica, che possa evidenziare lo stato di smarrimento e di disordine del mondo attuale e del confuso osservatore. La pittura di Liliana Santandrea provoca letture multiple della realtà: c’è un diffuso senso della precarietà e del declino, non solo di cultura o di civiltà, ma del linguaggio, al rischio di rendere inautentico il suono, il segno visivo dell’esperienza artistica.
Le “cose mute” descritte da Hugo von Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos, appartengono alla stessa famiglia del “cose declinanti” dell’artista Liliana Santandrea.
Nella serie “La montagna e l’uomo”, non sono le pietre o gli alberi a diventare uomini, come è nella tradizione della poesia e della narrativa, ma sono gli uomini che diventano cose, essenze senza nome ed unica forma di una reale presenza di una umanità, in piena dissoluzione.
È una certa umanità che scompare: l’umanità della coscienza storica, quella della “intenzionalità rituale”, che non consente alcuna scissione tra la nostra coscienza e il mondo; quella che ci pone il “tempo esaurito” della tradizione mitica: “La tradizione-dice – Ricoeur- nella misura in cui discende essa stessa il pendio del simbolo verso la mitologia dogmatica si viene a situare sul tragitto di questo tempo esaurito”.
L’artista Santandrea è consapevole di questa caduta delle ideologie, delle idee senza simbologie visibili e senza alcuna forza rivitalizzante. È la constatazione di un declino culturale di un modo di pensare, di idealizzare, di concepire la realtà senza la sua magia e senza il suo risvolto misterioso. È sentirsi defraudato di una antica sensibilità del vivere che faceva sognare e ricamava i vestiti più belli della nostra fantasia.
Ciò che si coglie, infatti, nel mondo contemporaneo, è la mancanza dell’immaginario e del numen del luogo: una sorta di “insieme semantico” della religiosità dell’atto creativo e della sua rappresentazione.
Non è “la grotta fantastica” che si vuole riconquistare, ma un particolare motivo di osservazione: predisporre la conquista per una nuova conoscenza, fatta di letture senza idolatrie e per lettori inventori. L’artista deve liberare la mente dal “gergo”, cioè dagli orpelli accademici, dalla retorica delle mode e dall’eccesso di venerazione delle cose del tempo.
Emerson diceva che “la casa dello scrittore è la gente, non l’università”, volendo dimostrare che non è la fredda e programmata erudizione che fa uno scrittore, come non è la sola abilità tecnica e professionale che fa un artista.
Liliana Santandrea è consapevole di tutto questo e nella sua produzione artistica rivela, opportunatamente, capacità e comportamenti interpretativi e propositivi. La sua è una produzione di tipo progettuale: il progetto “uomo” nel tempo storico e nello spazio geografico senza confini.
La chiave di lettura di queste universalità sta nel recupero dell’ironia. L’ironia che aiuta la comprensione dell’opera e ne toglie ogni ambiguità, anzi ci permette di entrare, senza fantasticherie, nella letteratura dell’immaginazione, nei campi della contraddittorietà delle culture pittoriche, nelle stravaganze del nuovo dominio del “political correct”, senza impedirci, per sopravvivere, di poter esorcizzare i fantasmi della de-contestualizzazione.
L’ironia è la metafora della libertà; è la luce che ci consente di vivere senza ombre esistenziali prevaricatrici e senza menzogne oscurantiste (“Ciò che è nascosto, non ci interessa”. Wittgenstein).
I silenzi, le forti campiture di antica evocazione cartografica, le figure di sfondo ed in atteggiamento di attesa alla ricerca di nuove idee universali, sono i segni distintivi ed emblematici della attività e ricerca artistica di Liliana Santandrea.
C’è ancora una dimensione culturale che mi preme sottolineare: il piacere del viaggio, il viaggio dei ritorni, i Nostoi.
Il ritorno esistenziale, la resistenza ad una visione della vita, ad un richiamo all’infanzia rivissuta nel ricordo e anche nel presente.
Il ritorno ulissiaco è il tema psicologico, per antonomasia, che condiziona le vicende narrate, le scelte fondamentali, il contatto con la vita e le cose. Nelle opere dell’artista, traspare, una velata nota di nostalgia per il “ritorno”, contaminato dalle incongruenze della precarietà del vivere e dalle incertezze dei contenuti effimeri ed evanescenti dell’oggi.
L’artista desidera, al di là di tutto, attraverso le sue opere, lanciare un messaggio: riscoprire il “realismo” delle storie, le “storie” senza tempo, le “storie” dell’anima.
Questo qualifica il suo progetto “uomo e ambiente” e fa ri-pensare la propria storia individuale, quale nuovo “mito” da ri-vivere per le generazioni future.

SCULTURE – 2009


ANGELI

Olio su tavola