Critica

SONETTO PER LILIANA di Giuseppe Masetti – 2012

Chi vive in quel lembo di territorio ricompreso fra l’Alto Adriatico e le preziose chiese bizantine di Ravenna ha introitato da anni all’orizzonte una presenza sconvolgente, che dalle terre piane solleva verso il cielo grandi linee biconvesse, ridisegnando l’orizzonte, la luce della notte e i rapporti fra gli uomini.

Chi vive intorno a questi luoghi aveva una memoria terrigna, ma in un tempo breve è stato strappato al torpore rurale da immense fabbriche, sempre più grandi delle proprie possibilità. Dopo averle accettate, discusse e odiate, oggi le osserva e le sorvola ogni volta che cerca a occidente il mare aperto.

Chi vive in questi spazi sa che dalle grandi bocche ovali, come da narici di un cuore magmatico, escono ceneri del nostro passato, combuste da un tempo veloce, che non è più nostro e ci smarrisce.

Chi dipinge un’idea di paesaggio che incalza il nostro abitare teme che dietro a quelle forme ricurve nessuno possa più immaginare necessaria la presenza dell’uomo.
La costruzione ha divorato il costruttore e bruciando ininterrotta ha cancellato il giorno e la notte.

Chi dipinge le torri moltiplicate di quel nuovo silicio non ha più bisogno del colore. Sono già cadute la rabbia e la speranza; tutt’intorno muovono solo macchine e quantità, in uno scorrere livellato di acque e di flussi che non raggiunge più nessuno.

Chi dipinge questa città senza cittadini osserva di sicuro i suoi aliti salire lentamente verso l’alto, ma vorrebbe immaginarvi altri spazi e altre vite liberate.

Chi raccoglie questi silenzi è una donna e il suo vestito è di colore vermiglio.

FRA ORIENTE E OCCIDENTE di Carlo Polgrossi, Bagnacavallo – novembre 1998

Non è facile enucleare la complessa personalità artistica di Liliana Santandrea, pittrice, calcografa, ceramista ed insegnante apprezzata e stimata della Scuola di Arte Disegno «Bartolomeo Ramenghi» di Bagnacavallo. Sono infrequenti gli artisti in grado di esprimersi ad alto livello nell’incisione e contemporaneamente in pittura: direi rari quelli che a queste discipline sanno aggiungere anche la ceramica, attività quanto mai variegata e complessa nelle sue numerose tecniche esecutive.

Un’artista eclettica dunque, profonda conoscitrice dei media espressivi che sa utilizzare con facilità e padronanza. La versatilità del linguaggio sa tuttavia ben amalgamarsi ed unificarsi nell’espressione formale, perfettamente lucida e coesa.
Allieva di Ruffini, un artista che ha sempre ritenuto inscindibile la qualità formale dell’opera dal suo contenuto, la Santandrea ha operato e continua a muoversi nell’ambito magmatico dell’espressionismo, oscillando fra esiti figurativi ed informali. La matrice appare più francese che tedesca nel senso che la sua opera si estende su di un versante estetico formalmente più gradevole ed elaborato, concettualmente distante dal mondo disperato ed ansiogeno del filone nordico. Esiste nel suo lavoro una sottile ma persistente tendenza a rallentare il gesto espressivo, ad ingentilirlo ed a solidificarlo in un tempo ed in uno spazio di chiaro gusto classicheggiante.
La costante più evidente tuttavia di tutto il suo operare, è rappresentata dal continuo spirito di ricerca: un’indagine non circoscritta solo all’analisi delle potenzialità dei mezzi espressivi, bensì articolata in ambiti filosofici e sociologici di bruciante attualità. Una rappresentazione a tutto campo che abbraccia e coinvolge il concetto stesso dell’umana esistenza. Una simbologia dell’uomo odierno, della frammentarietà e precarietà del suo quotidiano, del caos inteso come perdita di coesione, incapacità di riconoscersi e quindi di amarsi. Da tutto ciò non può che nascere la paura, figlia della solitudine dell’uomo moderno il quale sa raggrupparsi ma non affratellarsi, e disprezza le diversità perché non sa riconoscerne il valore. Uomini come cariatidi impastate in rassegnati esodi senza ritorno.
Non dice l’artista esplicitamente quali siano le cause, di chi le colpe né quali i rimedi a tutto questo. Con gesto di efferata ironia, lustra, incera, inquadra con grazia l’esile frammento come effimera icona di un mondo ormai senza futuro ove già, fra polverosi scenari di recite ormai dimenticate, si intravedono le lande deserte dell’entropia che si compie. Una visione apparentemente senza speranza. Solo se l’uomo saprà vincere la paura, se lascerà gli inutili orpelli della superbia e della presunzione, solo allora forse, il futuro si rimetterà in moto ed allora, su più solide basi, si potrà riaccendere la speranza di costruire un nuovo umanesimo.
L’artista, attenta non solo ai fatti dell’arte ma anche a quelli più vasti della vita, titolando l’ultima serie di opere «Fra Oriente e Occidente» pone probabilmente l’indice su quello che sarà il problema centrale dell’umanità nel secolo venturo. Afferma con forza che le differenze culturali fra i popoli sono un inestimabile valore, una ricchezza che fino ad oggi non abbiamo saputo usare, racchiusi ed illusoriamente protetti nell’«hortus conclusus» di un provincialismo planetario duro a morire. Dei miti aulici, orgoglio e dannazione delle genti, resta ben poco. La bellezza, ultima sirena, è scomparsa dall’arte e altrove, nel corso di questo secolo ed ora giace, nuda e rinsecchita, nella trasparenza di un vaso di formalina.
Sia la ragione allora, a darci il coraggio di accomunare ciò che resta di noi, fondiamo i segni visibili delle nostre (presunte) grandezze e dal «melting pot» uscirà forse qualcosa di nuovo che, tutti comprendendo, nessuno potrà escludere.
Liliana Santandrea ripropone dunque tenacemente il tema del pianeta all’uomo e dell’uomo al suo simile, in nome di un rinnovato e più onesto patto. E lo fa con tutta la bravura e la passione che da sempre la contraddistinguono. Sceglie, e non poteva essere diversamente, la via più difficile e più infida, quella del cuore e della conoscenza, quella in cui tecnica e ricerca acquistano nuovo senso e dignità in nome di una bellezza antica mai pienamente goduta.