Critica

PENSARE LA PITTURA, SPERIMENTARE CON L’INCISIONE

Le ultime opere di Liliana Santandrea

di Giuseppe Masetti 2022

 

Santandrea proviene dal cuore colto della Romagna, quella provincia storica e ricca, dai tanti palazzi affrescati, sotto ai quali dormirono Napoleone e numerosi cardinali, una piccola nobiltà diffusa e animosi patrioti.

L’azzurrino di quelle volte neoclassiche riveste da sempre le eleganti ceramiche faentine; le belle arti qui sono di casa e gli Istituti d’arte sono ancora molto frequentati, per tenere in vita le antiche botteghe e far pulsare il grande Museo Internazionale della ceramica.

Liliana è nata lì a Faenza respirando quell’aria, per trasferirsi poi e lavorare nella vicina Bagnacavallo, il bel borgo che diede i natali a Leo Longanesi e che da anni alimenta un vivace Gabinetto delle Stampe Antiche e Moderne, all’interno della sua cittadella culturale, nell’ex convento delle madri Cappuccine.

Nonostante il debito per la pittura sia avvertito anche qui, Liliana dopo il Liceo e l’abilitazione all’insegnamento, ha voluto guardare ben oltre, frequentare le buone scuole di incisione e seguire i migliori maestri della sperimentazione grafica contemporanea.

Così ha trascorso alcuni degli Anni ’80 a Venezia, studiando il lavoro di Riccardo Licata alla Scuola Internazionale di Grafica, per guardare poi all’opera di Renato Bruscaglia fermandosi alla Scuola di Grafica d’Arte dell’Accademia di Urbino; in tempi successivi è stata attenta ai consigli offerti da Tonino Guerra ed è poi tornata a collaborare sul torchio con il suo insegnante di Liceo Giulio Ruffini, fino ad ospitare negli ultimi anni a Bagnacavallo gli apprezzati stage del noto bulinista austriaco Jürgen Czaschka.

Praticamente una vita intera, trascorsa tra studio, ricerca e formazione; per alcuni decenni infatti Liliana è stata Direttore didattico e docente alla Scuola comunale d’Arte “Bartolomeo Ramenghi” nella sua Bagnacavallo, contesa fra centinaia di alunni e discipline diverse.

Malgrado questo impegno è sempre riuscita a ritagliarsi un proprio ambito creativo, a tenere numerose mostre in Italia e all’estero, quasi sempre centrate sul rapporto, per lei fondamentale, tra l’ambiente reale delle nostre periferie, quelle forme simboliche dettate dalle architetture industriali e i contesti umani, incapaci ad orientarsi e a darsi coscienza.

Spazi riconoscibili, ferrigni, dove l’uomo è stato, ma dove non appare più necessario.

Ha così prestato il suo linguaggio artistico per interpretare il dialogo inconsapevole dell’uomo con un nuovo panorama industriale, un’accelerazione in continua tensione fra memoria e spaesamento, fra mito e degrado. Le sue incisioni sono il risultato di una ricerca continua, di un’attenzione speciale che parte dalle immagini – fotografiche e mentali – catturate sul campo, poi meditate ed elaborate, per evolvere infine in paesaggi simbolici e dettagliati. A questi si aggiunge spesso un tocco personale ed ironico, inafferrabile, come il suo parlare discreto, sfumato sempre in un evanescente non-detto, che devi inseguire e immaginare, per comprendere il senso del suo progetto.

Al pudore nel definire con le parole il tema indagato Liliana associa per contro, fin da subito, una chiara inquadratura concettuale dell’opera da realizzare. Paesaggi plastici, equilibrati, concepiti prima in precisi bozzetti preparatori, sottendono un’idea ben chiara di quanto la lastra dovrà contenere; solo l’alchimia degli ultimi interventi tecnici produce risultati inconsueti, come il vortice di vapori e il terreno puntinato che incorniciano la grande acquaforte e maniera a zucchero, intitolata Crogioli nella polvere, ove la sfida dell’autrice si spinge a descrivere l’intenso fumo scuro che incombe sui distretti industriali delle raffinerie appena fuori dalla città del silenzio.

Spesso la sua impronta risiede in quella traccia vermiglia che irrompe sulla tavola dei grigi, e come una colata di lava pulsante ci dice che il gigante è vivo, anche se quei panorami alienati non contengono più la presenza umana. Le grandi ciminiere bicovesse hanno un respiro ininterrotto, perenne, che un ignoto Prometeo ha acceso e nessuno sembra più poter controllare.

Ma anche le sue distopiche figure femminili, spesso di spalle per non condizionare lo sguardo con i tratti di un volto, spostano l’attenzione sullo sfondo delle acqueforti e sui piccoli segni simbolici che galleggiano intorno alla fine trama dei tessuti e dei capelli. Un dettaglio sapiente e magnetico, un virtuosismo discreto che vuole affrancare le sue creature dal conformismo della ritrattistica, spesso ostaggio di maniera nella produzione calcografica.

In tutta l’opera incisa di Liliana Santandrea – che oggi raggiunge una piena maturità/padronanza di temi e linguaggi – si coglie spesso l’emergere di un particolare evocativo finemente ricercato, che si stacca dal fondo indefinito, magmatico, come la foglia di quercia che sfiora il braccio di Beatrice vestita di donna, ancora una raffinata acquaforte e acquatinta con maniera a zucchero, a ricordarci che pure oggi, uomini e donne del nostro tempo, devono uscire da nuove foreste.

Concept della mostra di Angelamaria Golfarelli – 2025

Siamo isole imperfette e meravigliose dove ogni differenza è un valore che accresce e dà un senso al perfetto e cosmico arcipelago di cui siamo parte.

Anche per questo 8 marzo 2025, UDI Forlì propone una delle edizioni della mostra che vuole, come ogni anno, dare ad un’artista donna la possibilità di esprimere, attraverso le sue opere e il suo personale talento, la profonda riflessione che ella rivolge al mondo femminile. Questa diciannovesima edizione è dedicata alle opere di Liliana Santandrea e ha come leitmotiv il lavoro e l’ambiente, temi da sempre cari ad UDI. Imperfect Islands è infatti una mostra che esporrà opere pittoriche in tecnica mista e incisioni su carta e su gesso che, attraverso lo sguardo sapientemente concreto dell’artista, porteranno ad indagare l’oggettività del lavoro inteso come reale affermazione di una concreta e stabile emancipazione dell’individuo in genere, e della donna in particolare. I paesaggi industriali delle sue opere, infatti, narrano, attraverso le atmosfere estranianti di periferici insediamenti, architetture spettrali di fabbriche che delimitano i confini di un territorio dove i fumi abbondanti che escono dalle ciminiere si fondono in un unico e sempre uguale orizzonte che, lontano da ogni monotonia, sottolinea invece quanto il lavoro sia necessario ad un autentico riconoscimento dell’individuo e della sua dignità. Liliana Santandrea sfata così in maniera inequivocabile il diffuso pregiudizio che l’arte femminile sia ispirata esclusivamente dall’emotività e da una natura fragile che esprime senza alcuna forza i paradigmi della sua essenza. Perché nelle sue opere, la cui preziosa tecnica non sovrasta mai l’idea, la presenza assoluta di una poetica ermetica non si sottrae al processo colto che il suo grande talento elabora. Quello di calarsi nella realtà e nella vita con profonda consapevolezza. Senza perdere mai di vista il messaggio che l’artista e la donna vogliono dare: che la vera emancipazione e la libertà passano inevitabilmente dal lavoro. Perché c’è un tempo per i sogni e uno anche per le illusioni, ma non è questo. Oggi, infatti, occorre trovare la propria dimensione nel mondo e in questa difficile quotidianità, rispolverando valori creduti superati, ma anche dirigendosi verso quella inderogabile transizione ecologica che vede le donne sempre più spesso assumere ruoli centrali nei processi rivolti ad una sostenibilità capace di traghettare il presente in un futuro liberato dai tanti “inquinamenti” che ci affliggono. A queste riflessioni ci portano le straordinarie opere di Liliana Santandrea, che inducono ad affrontare anche l’improrogabile urgenza della crisi ambientale e climatica. Perché le ciminiere, i crogioli e le grandi cisterne che l’artista ritrae con una maestria rara sono sì parte di un sistema industriale ed industrioso che offre lavoro a tante persone, ma sono anche, attraverso le grosse emissioni in atmosfera di gas inquinanti, per alcuni aspetti, mezzi di distruzione ambientale. È quindi necessario trovare una giusta mediazione fra la richiesta di lavoro e il bisogno di tutelare l’ambiente. Le opere di Santandrea queste tematiche le affrontano con l’uso sublime dell’arte che, mai come oggi, può essere strumento di sensibilizzazione e consapevolezza.

Ma non si fermano ad un’unica declinazione le colte ricerche di Liliana, che incide profondamente anche su altri temi, affrontati però abbandonando momentaneamente la pittura per utilizzare la sua antica passione per la tecnica dell’incisione. E in questa mostra nelle incisioni esposte emerge prepotentemente la sua relazione con un femminile determinato e deciso che si immerge in una evanescente delicatezza. In esse, le forme sinuose delle donne ritratte di spalle, i profili appena accennati e la sovrapposizione dei volti indagano un universo femminile fatto di percorsi complessi dove a volte anche fatica e rinuncia esprimono con decisione l’importanza del ruolo della donna nella società. Ed è anche grazie a questa preziosa e minuziosa tecnica che il segno tracciato sulla lastra si incide sul foglio lasciando nell’unicità di ogni copia il simbolico riprodursi di un’istanza prodigiosa quale solo una genesi misteriosa sa attingere. Liliana Santandrea con la sua arte ci esercita così a raggiungere quella dimensione alta in cui l’io si abbandona al noi e il pensiero si apre verso la straordinaria ipotesi dicotomica di una verità plurale capace di ascoltare più voci.

Un talento assoluto che dall’arte estrae l’essenza vitale di una donna abituata a prendersi cura di sé anche nelle piccole cose. Un sofisticato pensiero femminile che si rivolge alle altre donne con il generoso bisogno di condividere la sua concretezza. Perché Liliana da questo non sa prescindere e, anche quando attraversa il sogno, il suo sguardo non perde mai il saldo contatto con il reale.

C’è tanto da far riflettere in questa mostra e tanto ancora da assimilare da queste opere così autentiche ed evocative che solo lo sguardo più attento saprà cogliere leggendo, attraverso una delicata malinconia, quella profetica visione che Dostoevskij e Montale ci suggerivano del domani, con i loro preziosi scritti.

SONETTO PER LILIANA di Giuseppe Masetti – 2012

Chi vive in quel lembo di territorio ricompreso fra l’Alto Adriatico e le preziose chiese bizantine di Ravenna ha introitato da anni all’orizzonte una presenza sconvolgente, che dalle terre piane solleva verso il cielo grandi linee biconvesse, ridisegnando l’orizzonte, la luce della notte e i rapporti fra gli uomini.

Chi vive intorno a questi luoghi aveva una memoria terrigna, ma in un tempo breve è stato strappato al torpore rurale da immense fabbriche, sempre più grandi delle proprie possibilità. Dopo averle accettate, discusse e odiate, oggi le osserva e le sorvola ogni volta che cerca a occidente il mare aperto.

Chi vive in questi spazi sa che dalle grandi bocche ovali, come da narici di un cuore magmatico, escono ceneri del nostro passato, combuste da un tempo veloce, che non è più nostro e ci smarrisce.

Chi dipinge un’idea di paesaggio che incalza il nostro abitare teme che dietro a quelle forme ricurve nessuno possa più immaginare necessaria la presenza dell’uomo.
La costruzione ha divorato il costruttore e bruciando ininterrotta ha cancellato il giorno e la notte.

Chi dipinge le torri moltiplicate di quel nuovo silicio non ha più bisogno del colore. Sono già cadute la rabbia e la speranza; tutt’intorno muovono solo macchine e quantità, in uno scorrere livellato di acque e di flussi che non raggiunge più nessuno.

Chi dipinge questa città senza cittadini osserva di sicuro i suoi aliti salire lentamente verso l’alto, ma vorrebbe immaginarvi altri spazi e altre vite liberate.

Chi raccoglie questi silenzi è una donna e il suo vestito è di colore vermiglio.

FRA ORIENTE E OCCIDENTE di Carlo Polgrossi, Bagnacavallo – novembre 1998

Non è facile enucleare la complessa personalità artistica di Liliana Santandrea, pittrice, calcografa, ceramista ed insegnante apprezzata e stimata della Scuola di Arte Disegno «Bartolomeo Ramenghi» di Bagnacavallo. Sono infrequenti gli artisti in grado di esprimersi ad alto livello nell’incisione e contemporaneamente in pittura: direi rari quelli che a queste discipline sanno aggiungere anche la ceramica, attività quanto mai variegata e complessa nelle sue numerose tecniche esecutive.

Un’artista eclettica dunque, profonda conoscitrice dei media espressivi che sa utilizzare con facilità e padronanza. La versatilità del linguaggio sa tuttavia ben amalgamarsi ed unificarsi nell’espressione formale, perfettamente lucida e coesa.
Allieva di Ruffini, un artista che ha sempre ritenuto inscindibile la qualità formale dell’opera dal suo contenuto, la Santandrea ha operato e continua a muoversi nell’ambito magmatico dell’espressionismo, oscillando fra esiti figurativi ed informali. La matrice appare più francese che tedesca nel senso che la sua opera si estende su di un versante estetico formalmente più gradevole ed elaborato, concettualmente distante dal mondo disperato ed ansiogeno del filone nordico. Esiste nel suo lavoro una sottile ma persistente tendenza a rallentare il gesto espressivo, ad ingentilirlo ed a solidificarlo in un tempo ed in uno spazio di chiaro gusto classicheggiante.
La costante più evidente tuttavia di tutto il suo operare, è rappresentata dal continuo spirito di ricerca: un’indagine non circoscritta solo all’analisi delle potenzialità dei mezzi espressivi, bensì articolata in ambiti filosofici e sociologici di bruciante attualità. Una rappresentazione a tutto campo che abbraccia e coinvolge il concetto stesso dell’umana esistenza. Una simbologia dell’uomo odierno, della frammentarietà e precarietà del suo quotidiano, del caos inteso come perdita di coesione, incapacità di riconoscersi e quindi di amarsi. Da tutto ciò non può che nascere la paura, figlia della solitudine dell’uomo moderno il quale sa raggrupparsi ma non affratellarsi, e disprezza le diversità perché non sa riconoscerne il valore. Uomini come cariatidi impastate in rassegnati esodi senza ritorno.
Non dice l’artista esplicitamente quali siano le cause, di chi le colpe né quali i rimedi a tutto questo. Con gesto di efferata ironia, lustra, incera, inquadra con grazia l’esile frammento come effimera icona di un mondo ormai senza futuro ove già, fra polverosi scenari di recite ormai dimenticate, si intravedono le lande deserte dell’entropia che si compie. Una visione apparentemente senza speranza. Solo se l’uomo saprà vincere la paura, se lascerà gli inutili orpelli della superbia e della presunzione, solo allora forse, il futuro si rimetterà in moto ed allora, su più solide basi, si potrà riaccendere la speranza di costruire un nuovo umanesimo.
L’artista, attenta non solo ai fatti dell’arte ma anche a quelli più vasti della vita, titolando l’ultima serie di opere «Fra Oriente e Occidente» pone probabilmente l’indice su quello che sarà il problema centrale dell’umanità nel secolo venturo. Afferma con forza che le differenze culturali fra i popoli sono un inestimabile valore, una ricchezza che fino ad oggi non abbiamo saputo usare, racchiusi ed illusoriamente protetti nell’«hortus conclusus» di un provincialismo planetario duro a morire. Dei miti aulici, orgoglio e dannazione delle genti, resta ben poco. La bellezza, ultima sirena, è scomparsa dall’arte e altrove, nel corso di questo secolo ed ora giace, nuda e rinsecchita, nella trasparenza di un vaso di formalina.
Sia la ragione allora, a darci il coraggio di accomunare ciò che resta di noi, fondiamo i segni visibili delle nostre (presunte) grandezze e dal «melting pot» uscirà forse qualcosa di nuovo che, tutti comprendendo, nessuno potrà escludere.
Liliana Santandrea ripropone dunque tenacemente il tema del pianeta all’uomo e dell’uomo al suo simile, in nome di un rinnovato e più onesto patto. E lo fa con tutta la bravura e la passione che da sempre la contraddistinguono. Sceglie, e non poteva essere diversamente, la via più difficile e più infida, quella del cuore e della conoscenza, quella in cui tecnica e ricerca acquistano nuovo senso e dignità in nome di una bellezza antica mai pienamente goduta.